Qualche anno fa la media education veniva interpretata come una educazione all’analisi critica dei media. I media – almeno quelli di interesse dei pù giovani – erano all’epoca i fumetti e la televisione. Erano i tempi della pubblicità cattiva e della violenza nascosta, contro cui i ragazzi andavano vaccinati. Poi si passò ad un atteggiamento più aperto: educare ai media significava (anche) insegnare a riusare quegli strumenti e quelle modalità comunicativa, magari per fini diversi.
Oggi che, come dice de Kerckhove, “la pubblicità è finita”, e Google propone le sue Apps for Education (www.google.com/apps/Intl/it/edu), si sente il bisogno di un po’ di “web 2.0 education” , nel primo dei due sensi delineati sopra. E non solo perché il Copasir ha sollevato la questione del rischio intrinseco per la sicurezza nel cedere la rete telefonica nazionale ad un operatore straniero, o che Snowden ci ha ricordato che le maniere per raccogliere informazioni sono tante e non tutte prevedono l’accordo dell’utente.
Dovrebbe essere un corso obbligatorio a scuola ma anche all’università. Immagino che il sillabo del corso dovrebbe comprendere anche le questioni legate alla qualità dei contenuti e alla certificazione delle competenze di chi li produce; ma prima di tutto dovrebbe contenere un glossario in cui vengano spiegati tre termini chiave: gratuità, connettività, concentrazione.
1. Gratuito
Gratis significa che si paga in qualche altro modo, o che lo paga qualcun altro. Eravamo abituati al gratuito sponsorizzato (Carosello, le radio private), il gratis promozionale (i primi tre mesi non li paghi), alla modalità freemium (non paghi il livello di servizio base, ma solo quello professionale) o al gratuito perché pubblico e sostenuto con le tasse. Software gratuito significava, soprattutto da noi, copiato. Poi è nato un modello di business “opensource” in cui il software puà essere libero e gratuito, perché quello che è venduto sono le competenze e non le licenze d’uso.
Oggi ci sono molte più contenuti e servizi offerti gratuitamente, solo che è meno chiaro dove sta puntando il gentile offerente e da dove trae le risorse per sostenere la sua offerta. Meno chiaro per l’utente, ma non tanto misterioso.
Sono gratis le app per smartphone, ma chi si cura più di controllare che uso fanno delle informazioni cui hanno accesso (rubrica, messaggi, posizione)? Sono gratis le web applicazioni di Google, dalla ricerca alla posta al calendario alla suite “office”. Quanto ci abbiamo messo a dimenticare che il risultato delle ricerche fatte da noi tiene conto del nostro profilo, costruito con tutti questi dati, e quindi finiamo per trovare solo quello che è calcolabile che ci interessi? E’ gratis lo spazio che ci offrono sulle nuvole (Dropbox, SugarSync, Amazon,…). Di chi diventano i dati che mettiamo dentro un qualsiasi host remoto? Quale normativa ne protegge l’accesso? Possiamo essere sicuri che una volta cancellati non ne restino residui?
2. Connesso
E’ bello poter essere connessi sempre e ovunque. Passare da una rete all’altra (non solo nel senso del roaming telefonico, ma anche passando dalla rete telefonica a quella wifi, usando lo stesso dispositivo e la stessa applicazione) fa sentire leggeri e mai più soli: among the clouds, in tutti i sensi. Ma significa anche fornire dati completi su ogni parte della nostra vita, con tanto di dove e quando. Se le informazioni sono il petrolio del nuovo millennio, allora più sono raffinate, meglio è; più il profilo è completo, più ha valore. Il nostro avatar virtuale (non quello che ci costruiamo sapientemente barando sui nostri limiti personali, ma quello calcolato sulla base di tutti i dati che, volontariamente o involontariamente, produciamo), insieme a quello di tutti gli altri, permette di prevedere eventi e indirizzare azioni in tanti campi, dal marketing alla politica.
Certo, chi vuoi mai che si interessi proprio a me? E in fondo, non sono segreti quelli che condivido nei social networks.
Viene in mente la famosa poesia di Martin Niemöller “…Quando sono venuti a prendere me, non c’era più nessuno che potesse parlare per difendermi.”
3. Concentrato
La startup che propone il suo servizio (gratuito) basato su un’applicazione innovativa probabilmente non ha tra i suoi piani di sviluppo quello di costruire un servizio a più livelli, da sostenere con gli abbonamenti, ma semplicemente di arrivare a costruirsi una massa di utenti tale da poter essere rivenduta ad un grosso player del settore insieme all’applicazione e a tutta la società. E’ il sogno di ogni giovane programmatore: fare il colpaccio con la killer-app e poi passare ad altro. In un mercato così vasto e imprevedibile, in cui si può sbagliare una sola volta, nessuno è in grado davvero di fare un piano di sviluppo su cinque anni – a meno di non essere un soggetto imprenditoriale con le spalle veramente grandi. Quindi: microinnovazioni più o meno geniali che vengono rastrellate e concentrate sotto un solo ombrello e un solo marchio. Così quel tessuto imprenditoriale intermedio che ha fatto la fortuna di questo Paese non ha possibilità di crescere. Con buona pace dei TechCrunch.
Dopo il corso, ogni studente sarà libero di scegliere cosa regalare a sua volta, e cosa tenersi per sé.
Commenti
Una risposta a “Web 2.0 Education”
[…] Qualche anno fa la media education veniva interpretata come una educazione all’analisi critica dei media. I media – almeno quelli di interesse dei pù giovani – erano all’epoca i fumetti e la televisione. Erano i tempi della pubblicità cattiva e della violenza nascosta, contro cui i ragazzi andavano vaccinati. Poi si passò ad un atteggiamento più aperto: educare ai media significava (anche) insegnare a riusare quegli strumenti e quelle modalità comunicativa, magari per fini diversi. Oggi che, come dice de Kerckhove, “la pubblicità è finita”, e Google propone le sue Apps for Education (www.google.com/apps/Intl/it/edu), si sente il bisogno di un po’ di “web 2.0 education” , nel primo dei due sensi delineati sopra. E non solo perché il Copasir ha sollevato la questione del rischio intrinseco per la sicurezza nel cedere la rete telefonica nazionale ad un operatore straniero, o che Snowden ci ha ricordato che le maniere per raccogliere informazioni sono tante e non tutte prevedono l’accordo dell’utente. Dovrebbe essere un corso obbligatorio a scuola ma anche all’università. Immagino che il sillabo del corso dovrebbe comprendere anche le questioni legate alla qualità dei contenuti e alla certificazione delle competenze di chi li produce; ma prima di tutto dovrebbe contenere un glossario in cui vengano spiegati tre termini chiave:gratuità,connettività,concentrazione…. […]