In tempi di disoccupazione a due cifre, e di ripensamento dell’importanza dell’orientamento professionale, si sente sempre più spesso dire “Ma vai al lavorare. Vai a zappare la terra!” Il significato è l’uso. E l’uso di questa frase mi è chiaro: quando si adopera, relativamente a chi, con quale valutazione implicita e in quale contesto di discorso.
Fino qui la teoria ormai classica, Wittgenstein docet. Ma se questa frase me la ridico, tra me e me, succede altro. Ci sono due centri di attrazione, o piuttosto di espansione: “zappare” e “terra”.
La zappa è un attrezzo che non va confuso con la pala o la vanga, ad esempio. Ha un caratteristico angolo retto tra il manico e la lama. La forma è normalmente triangolare, ma può anche essere trapezoidale o a due punte. Alcune sono accoppiate: una biforcuta e una a lama piatta. Ce ne sono di leggere e pesanti, adatte a lavori simili nel gesto ma completamente diversi nel contesto e negli obiettivi: creare un solco, estrarre i tuberi, eliminare le erbacce tagliando le radici. Zappare è un lavoro che si fa durante la preparazione della terra, prima di seminare o piantare. Poi si usa la zappa per rincalzare, cioè per coprire le radici con la terra per proteggerle, oppure per togliere le radici delle piante infestanti, o per estrarre, ad esempio, le patate. Comunque di solito in primavera o estate, di giorno, quando non piove. In genere, quindi, almeno alle nostre latitudini, si suda. Il manico è di legno (di solito di faggio o frassino) e piuttosto corto. Questo perché deve essere consentito un controllo fine del gesto. La posizione del corpo è però inevitabilmente piegata in avanti, spesso con le gambe divaricate intorno al solco che si sta tracciando. Questo regala a chi non ha l’abitudine e la flessibilità dovuta all’esperienza un sicuro mal di schiena. Malgrado quello che potrebbe pensare chi non l’ha mai fatto, zappare la terra non è un lavoro di forza. Serve forza per vangare, cioè per rivoltare profondamente la terra. O per spalare. Ma per zappare occorre conoscenza, competenza, attenzione.
La terra. Degli infiniti sensi di questa parola, qui contano solo quelli che hanno a che fare col lavoro. Terra prima di tutto nel senso di pezzo di terra, appezzamento. Ogni pezzo di terra ha le sue caratteristiche: in piano, in pendenza, al sole, all’ombra. Lo strato di terra superiore – quello toccato dalla zappa – può essere grigio, giallo, rosso, marrone; la consistenza può essere da polverosa ad argillosa. A seconda delle caratteristiche e della stagione, può essere secco, appena umido, bagnato. Tutti questi elementi rendono l’azione di zappare molto diversa, più o meno lunga e più o meno stancante.
In generale, rompere la superficie della terra scatena eventi. Lo strato superiore, a contatto con l’aria, fa da confine tra due mondi. C’è chi abita sopra e chi sotto; c’è chi temporaneamente valica il confine per scavar un nido per proteggere se stesso e la propria prole, o per trovare nutrimento; c’è chi esce e chi entra in continuazione e chi invece vive sul confine. Quando questa separazione è rotta da un’attività brusca come un colpo di zappa, che entra per quindici centimetri nella terra, genera un cataclisma: è tutto un via vai di lombrichi, formiche, larve che cercano di trovare scampo. Le percezioni di chi lavora, oltre ad abbracciare una parte di questo movimento, si riempiono di altri elementi: siccome la terra sotto è sempre più umida, la parte scavata è più scura, e questo genera delle macchie, che hanno una durata limitata soprattutto nelle giornate calde. Ma ci sono anche percezioni olfattive (la terra ha un odore) e sonore (dovute alla diversa resistenza offerta al colpo).
Tutto questo non è tratto né da Wikipedia, né dalla Treccani, né da altri vocabolari cartacei, né dagli ottimi siti sull’orticoltura. E’ il sunto veloce, molto ristretto, di quanto penso io, sulla base della mia esperienza, quando sento l’espressione “ma va’ a zappare la terra”.
Cosa se ne conclude?
1. Zappare non è un’attività stupida che richiede forza fisica, come sembrerebbe dall’uso dell’espressione “va’ a zappare”, rivolta a chi dovrebbe dedicarsi a compiti meno raffinati e a ruoli meno nobili di quelli che indegnamente ricopre. Zappare non è colpire selvaggiamente una superficie, come sembrerebbe dalle espressioni “smetti di zappare quella chitarra”. La terra non è una superficie neutra che riceve passiva dei colpi insensati. Insomma “va’ a zappare la terra” è un espressione di disprezzo creata da borghesi ignoranti di un modo di vita e di una cultura di cui non sanno un accidente.
2. Se è vero che le parole sono monete, nel senso che il loro significato pubblico è dato dal loro uso corrente e riconosciuto, esiste un valore “privato” (che non so se chiamerei significato per evitare confusioni) che può essere molto più ricco, che varia da persona a persona in base alle esperienza fatte. Le parole hanno un profumo, un sapore, che sente chi le pronuncia o chi le ascolta, e che cambia da persona a persona. Per fortuna il confine tra privato e pubblico è variabile e si può provare a modificarlo, come ho cercato di fare in queste poche note.
Commenti
Una risposta a “Va’ a zappare la terra”
[…] però – anche alla luce delle riflessioni che facevo qualche giorno fa sullo stesso tema, anche se forse non era troppo evidente – vorrei provare ad approfondire un po’ il […]