Costruire teorie sperimentali con il Coding

Tra le tante ragioni usate per giustificare la pratica (anticipata) del Coding, quella che mi pare più sensata per la scuola è la possibilità che viene data agli studenti di costruire in maniera sperimentale una teoria di un dominio. Per esempio: come funziona il ciclo dell’acqua? Perché a volte i semi germogliano ma poi si seccano? Quando va usato il congiuntivo?

Costruire una teoria significa capire, ma capire ad un livello diverso da “apprendere una regola o una formula”. Costruire in maniera sperimentale significa arrivare un po’ alla volta alla teoria giusta, provando modi diversi di mettere in relazione parametri e vedendo immediatamente, sensibilmente, il risultato.

Questo modo di apprendere è reso possibile dall’esistenza dei computer, nella loro essenza di artefatti digitali programmabili, e dalla loro accessibilità per gli studenti. Esistono esempi meravigliosi di simulazioni digitali  in campi diversi, ma che di solito hanno il difetto di essere chiuse, cioè non programmabili. Si riesce a intuire quali sono le regole in gioco, a verificarne le relazioni, ma non a formalizzarle.

Il coding ha senso in questo contesto a patto di avere presente dove si va a parare fin dall’inizio, e a patto di non fermarsi ai primi passi. E’ praticabile in tempi ragionevoli se si hanno a disposizione degli ambienti programmabili non vuoti, cioè in cui le regole del dominio sono già cablate. E’ utile se dopo la fase di scoperta e costruzione della teoria in un ambito limitato si passa alla sua estensione e riapplicazione in altri domini.

Passo 1. Se creo una storia animata usando un programma di disegno, che permette di aggiungere suoni e musiche e di muovere sprites sullo schermo, sto facendo quello che potrei fare a mano, con infinita fatica e molti più errori, disegnando su una pellicola. Quella storia avrà sempre lo stesso svolgimento non importa quante volte la esegua. Per creare la storia devo aver già chiare le regole dell’ambiente.
Cosa sto imparando? Ad usare certi strumenti, punto. Se programmo questa storia, sto imparando ad usare altri strumenti e concetti (ripetizione, spostamento) ma niente di più.

Passo 2. Se invece ho un ambiente dinamico, in cui succedono delle cose (immaginiamo un gioco: arrivano mostri, si presentano nuovi ostacoli etc) e devo muovere manualmente un personaggio, quello che succede dipende dalle mie azioni e ogni volta è diverso. Se il mostro si avvicina troppo, mi mangia. Ma se sta esattamente sopra di me, in verticale, gli posso sparare. Che invece di spostare il personaggio manualmente utilizzando un joystick, un mouse o un touchscreen io possa scrivere un comando per spostarlo non cambia molto le cose, ma è un primo passo.
Cosa sto imparando qui? A individuare i parametri e a stimare intuitivamente i valori di soglia di questi parametri cui devo reagire. Bene, ma ancora non basta.

Passo 3. Il tutto diventa interessante solo quando riesco a programmare il personaggio non in modo che esegua sempre lo stesso movimento, ma in modo che esegua un movimento diverso in funzione della situazione.

Senza scomodare l’intelligenza artificiale, posso definire delle semplici regole:

  1. se c’è un mostro nella linea di tiro, spara
  2. se il mostro si avvicina troppo, spostati verso l’area dove ci sono meno mostri

Bisogna definire cos’è la linea di tiro, quanto è grande e come si verifica la sicurezza di un’area, eccetera. Cosa si sta imparando qui? A costruire una strategia che sia buona in qualsiasi situazione. Per costruire la strategia bisogna non solo individuare i parametri dell’ambiente più significativi ma anche definire in maniera precisa i valori di soglia, e poi stabilire le azioni migliori per far fronte alla situazione definita dal superamento di quei valori, cioè bisogna costruire una teoria. Il fatto che io debba programmare questa strategia mi obbliga a formalizzarla e a verificarla. La possibilità di rappresentarla in un codice sorgente mi permette di discuterla con gli altri, di rivederla in un momento successivo, di correggerla, di generalizzarla.

Non è tanto importante l’apprendimento delle tecniche di programmazione – che però sono funzionali alla costruzione della teoria e alla sua verifica immediata – , quanto il fatto che questo approccio permette di affrontare domini (che tradizionalmente mi chiederebbero di imparare in maniera fideistica certe nozioni, per esempio che l’accelerazione di gravità sulla Terra è 9,8 m/s) in una maniera costruttiva, esperienziale e collaborativa. Posso sperimentare direttamente la relazione tra certe cause e certi effetti, come potrei fare anche nel mondo reale se avessi risorse a sufficienza o se potessi accelerare o rallentare il tempo (come faceva Galilei). Il fatto che la mia teoria sia scritta in una forma eseguibile facilità sia la verifica immediata, sia il confronto con gli altri.

Per esempio, ho un seme. Se c’è sole e acqua, il seme germoglia e nasce un fiore. Se c’è acqua, ma non sole, il seme germoglia ma non nasce il fiore. Se c’è sole, ma non acqua, il fiore crepa. I parametri qui sono luce e umidità; i valori soglia li devo scoprire. E poi devo trovare le azioni che permettono al mio seme di fornire la performance migliore (innaffiare, drenare, coprire, illuminare). Se riesco a programmare queste azioni significa che ho costruito una teoria dell’ambiente. Non: ho costruito una teoria perché avevo imparato le regole, ma: costruendo una teoria ho capito le regole.

Ci sono infinite applicazioni possibili. Papert ha pensato alla geometria piana, ma si può spaziare dalla fisica alla biologia, dalla storia alla grammatica, dalla musica alla lingua due. Forse all’inizio potrà sembrare bizzarro concepire lo studio della lingua in maniera sperimentale, ma niente lo vieta. L’importante è che ci siano delle regole che producono effetti (diacronici o sincronici) e che queste regole si possano inserire in un ambiente che ne mostra gli effetti. E’ vero che le “regole” in ambito linguistico hanno tantissime eccezioni, mentre la fisica ci ha abituato a situazioni più lineari; ma si può immaginare una lingua artificiale senza eccezioni dove si possa sperimentare in assenza di attrito, o un universo fantastico dove le carestie portino inevitabilmente alle guerre. In fondo, la geometria euclidea o la logica aristotelica sono nate con la stessa idea di fare astrazione dai dettagli reali per arrivare più facilmente ai concetti e alle regole chiave.

Far costruire agli studenti un ambiente del genere partendo da zero è troppo complesso. Per farlo bisognerebbe sapere in anticipo quali sono i parametri fondamentali e la loro relazione, che invece dovrebbe essere l’obiettivo dell’attività. Sarebbe molto meglio avere a disposizione un ambiente con le sue regole già cablate (ma ispezionabili, o addirittura modificabili), che però mi permettesse di programmare le azioni con cui interagisco con l’ambiente. Che so: un ambiente in cui la relazione tra massa e peso è definita, in cui però il tempo si possa rallentare a piacere o la resistenza dell’aria azzerare.

Passo 4. Non si tratta di ricostruire tutto il sapere a forza di esperimenti. Una volta capito il meccanismo dell’elaborazione di teorie, si può cercare di capire se esistono delle invarianti che mi permettono di applicare uno schema che ha funzionato una volta anche in situazioni diverse. Per far questo, devo catalogare i miei schemi in funzioni delle caratteristiche delle situazioni che ne suggeriscono l’applicazione. Naturalmente questa è la parte più difficile. Ma la fase metacognitiva (cosa abbiamo scoperto? come potremmo riusarlo) è altrettanto importante di quelle precedenti e la competenza nell’applicazione di schemi a situazioni nuove è in fondo l’obiettivo che giustifica tutta l’educazione.

Passo 5. Inoltre gli schemi si possono rendere più potenti, grazie ad elaborazioni formali (generalizzazioni, trasformazioni). Qui forse vale la pena non provare a inventare tutto, ma sfruttare le esperienze di quelli che hanno già studiato e sperimentato prima di noi. Ma si inverte l’ordine tradizionale: prima si capisce, sperimentando in un ambiente semplificato e controllato,  quali sono le regole di fondo, e solo dopo si imparano i trucchi che permettono di riapplicarle in maniera estesa e rapida. Non mi si chiede di imparare prima i prodotti notevoli e poi, forse, capire a cosa mai possono servire, ma il contrario.

Serve necessariamente un computer e un ambiente di programmazione semplificato per praticare questo tipo di didattica? No, certo. Ma senza un ambiente digitale programmabile questo approccio sarebbe talmente difficile e lungo che in pratica si finisce per non applicarlo quasi mai.

 

 


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