Cos’e’ la programmazione

Dopo la lettura di un articolo di El País (tradotto e ripubblicato sul Venerdì di Repubblica di questa settimana) sul recupero dei giovani cinesi videogame-dipendenti, in cui si cerca di spiegare  il desiderio dei diciassettenni maschi, figli unici di dipendenti pubblici, di perdersi nei meandri virtuali di un universo dove finalmente qualcuno ne riconosca le qualità facendo ricorso alla eccessiva durezza dell’educazione familiare tradizionale e il poco affetto ricevuto, ho capito finalmente cos’è la programmazione. Un attimo di pazienza e lo dico anche a voi.

Il (anche la, certo, ma molto più spesso il) programmatore è un tizio che passa molte ore davanti ad un  monitor. Però va detto che quando ha un problema da risolvere continua a pensarci ininterrottamente, anche se visto da fuori sta facendo altro, come mangiare o dormire o parlare con voi. Non è un teorico, non cerca l’intuizione essenziale, ma proprio la soluzione pratica. E  dopo averla trovata ne subisce l’incantamento narcisistico e  la raffina e ritocca e la ottimizza finché qualcuno non lo scuote e lo invita  a passare ad altro.

Non ama lavorare in batteria, ma gli piacciono i team stretti dove spalla a spalla si arriva più in alto, come nelle piramidi umane del circo.

Il programmatore costruisce universi,  dà un nome alle cose e le porta all’esistenza. Stabilisce genealogie, crea discendenze e parentele. Ma disegna anche gli scenari dove questi nuovi enti dovranno dispiegare le loro azioni. Storia, geografica, fisica: tutto dipende da lui, niente gli sfugge, o almeno così pensa.

Perché il programmatore sente il bisogno irrefrenabile di controllare l’universo che ha costruito, di cui è l’unico Demiurgo. E non si contenta di stare a guardare da fuori: lancia il programma in modalità debug  e lo segue, letteralmente passo dopo passo, anzi lo spia, fino a immaginarsi avatar,  di qua e di là dello schermo (“per ora va bene, ho tutto quello che mi serve, ora vado avanti, vediamo che succede”). Cerca il bug, ma non con lo spirito dell’entomologo, piuttosto come un regista che impersoni  direttamente sulla scena un personaggio per vedere cos’è che non funziona delle sue battute.

Cosa farebbe se non potesse programmare? come darebbe sfogo a questa esigenza viscerale, forse infantile, di possedere un universo tutto suo, sicuro,  senza imposizioni esterne, senza competizioni, senza delusioni e tradimenti?

Programmare è il suo modo di soddisfare questo bisogno, tutto sommato senza fare troppi danni, almeno paragonati a quelli che combina chi si mette in testa di fondare un impero. E’ un’attività riconosciuta come socialmente utile, perciò si viene anche pagati – limitatamente. Mentre si evita che il disturbo esploda, si ottengono anche sottoprodotti, a volte pregevoli, detti “programmi”.

Insomma, è chiaro: la programmazione è una terapia.


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