La Disillusione Digitale è una forma di disagio che colpisce alcune persone, tipicamente over 50, maschi e femmine, indipendentemente dal censo o dal fisico. Tra i suoi tipici sintomi: sentirsi stonati in un coro di lodi del Digitale, avere sempre vent’anni di più degli altri seduti al tavolo di progettazione, provare fastidio per le terminologie anglicizzanti e per la parola di moda (ma vedi la Nota in fondo a questo testo).
I Disillusi Digitali vedono la storia alla maniera di Vico: c’è stata un’Età degli Eroi, in cui sono stati fatte tutte le scoperte più importanti, sono stati inventati i paradigmi e sono stati dati i nomi veri alle cose; e ora c’è l’Età degli Uomini, in cui il digitale è democratico e di tutti, ma se ne è perso il significato profondo.
La Disillusione Digitale in fondo assomiglia alla disillusione politica: c’è stata la Rivoluzione, poi l’era grigia del Digitale Reale, e poi il Crollo del Muro Digitale. Come quella, ha forti connotati affettivi, ma cerca di spiegare se stessa in termini di processi sociali, economici, tecnologici.
Ma forse conviene vederla in una prospettiva meno storica e più psicologica. Anzi psicoterapeutica.
Quando si parla di Digital Divide si pensa ad una linea di demarcazione tra generazioni. I giovani nativi e i vecchi immigrati, etc. Invece è un confine che ci troviamo davanti tutti, spesso, a tutte le età.
Intanto cominciamo a dire che il Digital Divide è solo un caso del Technology Divide (per restare all’Inglese che fa più fico). Ovvero quella sensazione, brillantemente descritta ne “La Caffettiera del Masochista” di Donald Norman, di essere dei cretini, inadeguati agli artefatti che popolano la nostra vita quotidiana.
Per esempio, andiamo al bagno al ristorante. Bagno molto chic, bellissimo, luci soft, rumori attutiti, magari pure una musichetta di sottofondo. Il cesso è il cesso, va bene, ma il rubinetto… come diavolo si usa? cerchiamo manopole, leve, pulsanti, ma niente. Agitiamo le mani sopra, sotto, ci avviciniamo, ci allontaniamo: nemmeno una goccia. Frustrazione.
Qui la semantica dell’oggetto è chiara (è un rubinetto, deve uscire dell’acqua) ma la grammatica no (come si usa?). La nostra aspettativa di trovare appigli per le dita è frustrata. Come direbbe Norman, l’affordance dell’oggetto è scarsissima.
Un altro caso: il taglia erba si rifiuta di accendersi. Riusciamo più o meno a togliere il coperchio di plastica che copre il motore. Qui ci sono leve, levette, viti, … ma a che serviranno? Cosa regolano? Come bisogna intervenire?
In questo caso ci sfugge anche la grammatica; l’unica cosa che ci sembra di comprendere è il vocabolario o meglio l’alfabeto (una leva è una leva, una vite è una vite). Ma da solo l’alfabeto non serve. E’ come trovarsi davanti al Cippo di Perugia: di sicuro quelle sono lettere, ma poi?
L’incapacità di regolare un orologio digitale dotato di DUE SOLI pulsante è dello stesso tipo. Ci manca lo schema mentale “menù ad albero” (un pulsante per muoversi nell’albero, un pulsante per scendere di livello o per confermare) che invece è naturale per i bambini. Di qui all’espressione ebete che assumiamo quando ci troviamo davanti una nuova app il passo è brevissimo. Non abbiamo idea di cosa siano quelle tre lineette orizzontali in alto a destra, la freccia a sinistra, i tre pallini collegati, e pazienza. Non sappiamo come si usano, e questo è un po’ peggio. Ma non abbiamo nemmeno idea di a cosa possa servire quella app. Sentiamo che dovremmo fare qualcosa, ma cosa?
Quindi il Digital Divide è solo un caso particolare della incapacità di affrontare con i vecchi strumenti concettuali le nuove tecnologie.
Ma facciamo un altro piccolo passo avanti: le nuove tecnologie non esistono. Sono una categoria psicologica, nel senso che è “nuova” la tecnologia che non c’era quando ci siamo affacciati al mondo delle macchine. Per esempio, per mio padre la radio era una “nuova tecnologia”. Ognuno di noi è portato ad accettare come naturali le tecnologie che esistevano, e guardare con sospetto le altre. Vale per la scrittura, il libro, la televisione, i computer, gli smartphone, la realtà aumentata, etc. Il libro cartaceo è più vero e giusto dell’ebook solo perché c’era nella mia infanzia.
I bambini, ovviamente, non hanno particolari problemi con le nuove tecnologie. E per forza; per loro non sono affatto nuove. Non le vedono nemmeno come tecnologie, sono semplicemente parte dell’ambiente, della natura. Ci sono abituati, non provano nessun’emozione particolare ad usarle; ma questo non è sufficiente perché le capiscano, e nemmeno perché abbiano interesse a capirle.
Ci sono delle persone particolari, curiose, che invece per le “nuove” tecnologie non provano ribrezzo immediato, ma le affrontano per capirle. Si domandano da dove vengono, come funzionano. Ci giocano, come farebbero i bambini. Le smontano e le rimontano, le cominciano a usare, se ne impadroniscono (per tornare a mio padre, a distanza di settant’anni mi raccontava con passione di quando aveva costruito la prima radio a galena). Qualche volta ne parlano in maniera entusiasta, come del “nuovo orizzonte” (della didattica, della medicina, etc). Diventano degli apostoli (scusate: degli evangelists), organizzano seminari, scrivono libri.
Quando queste persone sono insegnanti, trasmettono questo atteggiamento positivo, curioso, partecipativo, ai propri studenti. E’ quello che faceva il compianto Seymour Papert, scomparso di recente e mai abbastanza ricordato. L’effetto è che gli studenti – in particolare i più piccoli – non solo si divertono, ma si divertono ad imparare. Si affezionano alla macchina che hanno costruito, ci tengono, le vogliono bene. Riescono a vedere attraverso la macchina la parte che dipende da loro (le idee) e quella che è indipendente (le regole). Probabilmente – ma non è sicuro – manterranno questo atteggiamento positivo e curioso anche in futuro, non si faranno stregare dal canto delle sirene, per ogni nuovo regalo si domanderanno: ma come funziona? cosa c’è dietro?
Quello di questi insegnanti è un atteggiamento fortunato, che purtroppo non dura per sempre, perché negli ultimi cento anni le tecnologie cambiano in fretta. Succede perciò che anche queste persone si ritrovino imbarazzate quando quella tecnologia, con cui pure avevano fatto amicizia, comincia a diventare incomprensibile. Non la riconoscono più, come un cucciolo che è diventato un animale adulto, con personalità e pulsioni che li escludono. La tecnologia buona era quell’altra, quella di prima. C’è un distacco affettivo, oltre che cognitivo. A quel punto anche queste persone fortunate cominciano a parlare di “deriva”, di “usi impropri”, di “evoluzione distorta” eccetera, e si vanno a collocare nella terza schiera: dopo gli apocalittici e gli integrati, i disillusi. Ma non è un fenomeno storico che stanno descrivendo, è il loro (nostro) percorso attraverso la linea del Digital Divide.
Come si evita questo progressivo allontanamento? Non lo so con certezza. Ci si osserva, si studiano i segnali della disillusione. Ci si educa alla tolleranza. Non si smette mai di studiare e di fare, ci si continua a mettere alla prova, ci si fa aiutare da qualcuno più giovane e aggiornato. Personalmente è quello che cerco di fare, con risultati alterni.
Riassumendo: è una buona cosa affezionarsi ad una nuova tecnologia, perché ci mette in una disponibilità mentale tale da permetterci di capirla, ma non è un’acquisizione che dura per sempre. Comunicare questa disposizione agli studenti è una parte fondamentale del compito degli insegnanti. Più importante, secondo me, che insegnare il Computational Thinking.
Nota: quella della lingua del digitale è una questione che un giorno andrebbe studiata per bene. I Disillusi Digitali sono quelli che usano la parola “computer”, e mentre lo fanno pensano che è sinonimo di “calcolatore”. La generazione che attualmente ha in mano il digitale (quelli che oggi hanno trenta-trentacinque anni) non parla di “computer” ma di “device”, intendendo qualsiasi cosa sia connessa a Internet. D’altra parte, all’inizio degli anni ’80 del millennio passato (gli anni dell’Apple II, dell’Atari 400, del Commodore VIC 20 e del PC IBM) non erano nemmeno nati. Non conoscono il significato di “IBM-compatibile” e non vedono cosa c’entri con il loro tablet Android, e in generale non gliene frega nulla dell’etimologia. La lingua, come il digitale, si usa, anche senza capirla.
Commenti
Una risposta a “C’è una cura per la disillusione digitale?”
[…] La Disillusione Digitale è una forma di disagio che colpisce alcune persone, tipicamente over 50, maschi e femmine, indipendentemente dal censo o dal fisico. Tra i suoi tipici sintomi: sentirsi stonati in un coro di lodi del Digitale, avere sempre vent’anni di più degli altri seduti al tavolo di progettazione, provare fastidio per le terminologie anglicizzanti e per la parola di moda. […]