Ieri sera ho letto l’articolo di Roberto Trinchero “Sappiamo davvero come far apprendere? Credenza ed evidenza empirica” , che come sempre è chiaro e convincente.
Durante la notte ho rigirato nella mente le sue parole, con la sensazione di qualcosa che non quadrava perfettamente. Ora provo a mettere per iscritto questa sensazione in una forma spero comprensibile.
Mi trovo senz’altro daccordo con l’obiettivo dell’autore: sfatare una serie di luoghi comuni pedagogici (della “pedagogia popolare”, o del “costruttivismo ingenuo”) che non sono fondati su teorie solide ma solo su slogan raccolti per sentito dire.
Sono anche daccordo con le conclusioni e con le tabelle di raccomandazioni per docenti e studenti che chiudono l’articolo. Le pagine che ho letto su books.google.it del suo recente testo più esteso (“Costruire, valutare, certificare competenze. Proposte di attività per la scuola”, Franco Angeli, 2012) sono tutte condivisibili e forniscono strumenti davvero utili per la valutazione e l’autovalutazione.
La cosa su cui ho perplessità è invece il metodo empirico con cui viene effettuata la dimostrazione – si, lo so che è un po’ dura.
I dati su cui si basa Trinchero sono presi, tra l’altro, dal monumentale testo di Hattie “Visible Learning: A synthesis of over 800 meta-analyses relating to achievement” e in parte dalla elaborazione personale dell’autore dei risultati dei testi PISA 2009 per le regioni Piemonte, Lombardia, Toscana, Calabria.
Per esempio, si connettono i risultati dei test PISA alla dichiarazione dei metodi di studio usati dagli studenti o a quelli di insegnamento applicati dai loro docenti. Anche senza esaminare il valore dei testi PISA, a me sembra che l’ambito di significatività di questi dati sia ristretto ad un sistema scolastico che forse oggi non è il riferimento ultimo per la validità delle competenze. In altre parole, si può senz’altro concludere che hanno risultati scolastici migliori quegli studenti che seguono certi metodi; ma è sufficiente per giudicare in generale le strategie migliori per l’apprendimento? Si può giudicare l’apprendimento solo a partire dai risultati scolastici? In questo modo non si rischia di premiare solo ciò che è funzionale al sistema scolastico? O invece, ad esempio, certe variabili possono ricevere una valutazione significativa solo andando a vedere cosa corrisponde nella vita reale a quei risultati? E questa valutazione è possibile dentro la scuola stessa?
In altre parole, credo che un giudizio sull’intero sistema non possa avvenire dentro il sistema.
Tuttavia mi pare che non ci sia necessità di ricorrere a questi risultati sperimentali per essere d’accordo con il punto di vista di Trinchero e con la sua critica delle sei tesi elencate. La maggior parte delle tesi sono estremizzazioni di concetti di per sé condivisibili, e condivisi anche dall’autore. Come ogni estremizzazione, è facile dimostrare che sono inapplicabili, oltre che inopportune.
Per esempio la prima tesi:
1. Più stimoli diamo agli allievi, più apprendono?
E’ abbastanza evidente, credo anche senza bisogno di alcun test, che ogni docente sarebbe daccordo con le seguenti affermazioni:
– senza stimoli, è difficile apprendere
– con gli stimoli giusti, lo studente apprende
– con troppi stimoli, lo studente si confonde.
Il problema è quello di capire il significato di quel “troppi”: troppi stimoli contemporaneamente? troppi nell’unità di tempo? in troppi canali diversi? troppo diversi fra loro o in contraddizione? E come si coniugano stimoli diversi in canali diversi senza che si ostacolino vicendevolmente? Come si verifica in tempo reale il sovraccarico cognitivo?
La difficoltà è insomma quella di saper applicare concretamente la massima (lievemente Skinneriana) “dai gli stimoli giusti al tuo studente”. D’altra parte questo problema si presenta ogni volta che si decida di utilizzare uno strumento. Gli organizzatori anticipati di Ausubel, ad esempio, funzionano senz’altro, a patto di non essere “troppo” anticipati. La zona di sviluppo prossimale (Vygotskij) promuove l’apprendimento se non è troppo estesa; ma come si misura l’estensione giusta per ogni studente?
Oppure le due tesi collegate:
3. Gli allievi imparano meglio se sono lasciati liberi di sperimentare e costruire le proprie conoscenze?
6. Apprendere in gruppo è più efficace che apprendere da soli?
La prima tesi è negata decisamente; della seconda vengono evidenziati i limiti (non basta far “lavorare in gruppo” per migliorare l’apprendimento: è necessario che i membri del gruppo seguano un copione preciso).
Mi sbaglierò, ma per quel che conosco della scuola Italiana, credo che nessun docente pensi davvero di lasciare gli studenti da soli, o in gruppo, a costruire alcunché. Una tale fiducia illimitata non mi pare appartenga alla nostra cultura scolastica. Il problema è il limite di supporto (di indicazioni, di risorse aggiuntive, di regole,…) oltre il quale si rischia di ottenere esattamente il risultato previsto e niente di più. L’obiettivo dell’educazione scolastica non dovrebbe essere solo il travaso di conoscenze da un corpus stabilito alle menti dei discenti, sia perché alcune importanti conoscenze e abilità non sono (ancora) parte di quel corpus, sia perché man mano che cresce l’età del discente è possibile che l’apprendimento produca risultati nuovi, impredicibili ma utili alla revisione del corpus. Nemmeno l’alchimista più ottimista si è mai aspettato che mescolando ingredienti a caso venisse fuori un risultato interessante. Ma certo non si produce niente di nuovo se non si lasciano alcuni gradi di libertà all’esperimento.
Quali e quanti gradi, questo è il problema. Se penso all’educazione degli adulti in contesti lavorativi, e in particolare all’e-learning, trovo molto più frequente il rischio di non lasciare nessun grado di libertà al singolo e al gruppo, piuttosto che quello di lasciargliene troppi.
In conclusione, le tesi criticate mi sembrano negabili anche senza ricorrere a dati sperimentali; ma in questa formulazione estrema e astratta forse non sono veramente sostenute – e meno che mai praticate – da nessuno. E’ senz’altro utile mettere in guardia i docenti (e gli studenti) da facili formulette; il problema reale però è insegnare ad entrambi come controllare l’applicazione di strumenti e metodi.