Verso la liberazione dei libri prigionieri

Forse sarò un grafomane, forse sarò parte di quella maggioranza di italiani che scrivono più di quanto leggono. Ma insomma ho scritto un certo numero di libri, a partire dal primo, il più amato, “Io bambino tu computer”, con un mio disegno in copertina e un dischetto da 3,5 allegato. Era il 1992, nessuno mi aveva insegnato come si scrivono i libri e l’ho fatto a modo mio. Non volevo fare un trattato ma volevo raccontare di certe idee che avevo avuto mentre progettavo software e che mi pareva avessero un senso generale: il software educativo, secondo me, andava fatto in quel modo e non in un altro. Dopo quella volta ho continuato a scrivere didattica, programmi e programmazione, riportando le esperienze da un campo all’altro. Non avrei continuato a scrivere testi se non avessi continuato a scrivere programmi, e viceversa. Tra articoli, capitoli e libri che ho scarabocchiato a due in particolare sono affezionato al punto da riprenderli in mano ancora oggi.

Il primo, Storia di un Ipertesto, l’avevo scritto nel 1995 e pubblicato l’anno seguente nella collana Libropiù dalla storica casa editrice La Nuova Italia di Firenze.

L’altro, Fare e capire il digitale, l’avevo scritto nell’estate del 2000 e me l’ero autopubblicato qualche anno dopo su Lulu.com con un nome diverso.

Quello che hanno in comune è la forma bizzarra: metà romanzo, metà saggio, un po’ di biografia ma non troppo, un po’ di filosofia e un po’ di buon senso. Raccontano di un’immaginaria avventura di progetto e sviluppo di un software educativo con una voce fuori campo che commenta e fornisce lo sfondo teorico e tecnologico. I personaggi e la concatenazione degli eventi erano un po’ fantasiosi, ma l’oggetto no: in tutte e due i casi si parlava di due software veri. E questo continua ad essere un caso particolare. Vista l’epoca in cui sono stati scritti, parlavano di ipertesti, cioè di reti, nodi, link, scrittura e media, insomma di quelle cose che all’epoca sembravano i costituenti ultimi dell’informatica. Lo sono anche oggi, naturalmente, solo che si vedono molto meno. Oggi ogni testo è collegato ad altri testi, che l’autore lo voglia o meno, che lo sappia o meno. Oggi scriviamo ipertesti per forza.

Che fine hanno fatto? Alla fine del 2022, su tutti cataloghi online che sono riuscito a consultare il libro cartaceo è introvabile (l’altro è ancora scaricabile da Lulu.com ma dubito che qualcuno l’abbia fatto). Si capisce, i libri che parlano di tecnologia invecchiano presto; in più la sfortuna ha voluto che tre anni dopo la pubblicazione la Nuova Italia chiudesse. Credo che le copie invendute, se mai ce n’erano, siano finite al macero.

Devo confessare, da autore onesto, che alcune delle cose scritte lì dentro erano delle stupidaggini; altre erano chiaramente sbagliate. Ma qualche concetto importante penso ci sia ancora. Parlare di come si realizzano i software, soprattutto a chi di software sa poco o niente, mi sembra ancora oggi un’operazione fondamentale. Tra i tanti libri che parlano di programmazione ai programmatori mancano ancora testi che cercano di spiegare cosa c’è dietro un software (e non solo cosa ci si fa, o cosa ci fa) in termini comprensibili a tutti. C’è beninteso chi scrive di filosofia dell’informatica, ma l’oggetto del loro riflettere è il programma come prodotto, l’informatica come risultato, come modo di vita più o meno necessario dal punto di vista degli utenti e non degli autori. C’è, quando va bene, una critica dell’uso; raramente o mai una critica della produzione.

Quello che cercavo di fare inconsapevolmente nel ’95, e cerco di fare più consapevolmente oggi, è dare voce a queste persone silenziose che sono i programmatori: raccontare i loro sogni, le loro fissazioni e manie; dar conto dell’infinita varietà dei linguaggi di programmazione tra cui possono scegliere, delle questioni estetiche che si pongono quando scrivono; dell’importanza del genere e della lingua madre. Volevo smontare la “narrazione” attuale di un mondo digitale dato una volta per tutte, necessario, in perenne e naturale progresso, fatto di algoritmi ciechi e di mari sconfinati di dati. Come volevo anche mostrare che l’informatica potrebbe essere uno strumento di sviluppo personale e non uno strumento di asservimento, se ci dessimo la pena di capire come funziona. Valeva per i bambini (che erano il riferimento finale per quei libri), ma vale anche per gli adulti.

Che si fa in questi casi? Se avessi coraggio riprenderei in mano quei testi e li riscriverei, aggiornandoli, buttando via le tante sciocchezze a aggiungendo qualche nuova idea. Chissà che prima o poi non mi decida a farlo. Per il momento, ho deciso di recuperare il “dattiloscritto” originale, reimpaginarlo e diffonderlo con una licenza Creative Commons sperando che nessuno mi faccia causa. Dopo tanto parlare del testo cartaceo che sopravvive mentre quello digitale scompare, è ora di ribaltare le cose. D’altra parte, è quello che fa Google digitalizzando intere biblioteche. In questo caso, per lo meno, è l’autore orfano della casa editrice che decide cosa fare del suo testo. Esiste un termine per i software che non hanno più una società che li manutiene e li vende: abandonware. Non esiste un termine equivalente per i testi, ma solo autori che cominciano a riprendersi il diritto di ripubblicare le proprie opere quando queste risultino esaurite e l’editore non esista più o non abbia interesse a ripubblicarle. Roberto Maragliano lo fa da anni (https://www.scaffalemaragliano.it/), e io credo che sarebbe il momento di creare un vero “movimento”, un’armata per la liberazione del libri prigionieri.

Perciò ecco i link ai due PDF:

storia_di_un_ipertesto_2022.pdf

fare_e_capire_il_digitale_2022.pdf

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